Castellaccio di Lentini - castellietorrimedievali

Antonio Randazzo da Siracusa con amore
Castelli e torri
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Castellaccio di Lentini

IL CASTELLACCIO e il CASTELLUM NOVUM  tratto da Siracusa sveva di Laura Cassataro ERRE produzioni
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IL CASTELLACCIO
II sito è raggiungibile facilmente percorrendo la cittadina di Lentini sino alla pianga Umberto per poi arrivare alla Chiesa di San Luca e da lì alla via Arianna; dopo circa 200 metri si possono avvistare le rovine del "Castellaccio ". Attualmente chiuso al pubblico.
Rilievo topografico (da G. Agnello, L'architettura sveva in Sicilia) sotto: Castellaccio - Lentini; in primo piano la triquetra arx.




 


Non distante dalla basilica del Murgo, a Sud del moderno abitato di Lentini, esistono alcuni ruderi identificabili con la struttura federiciana menzionata dai documenti dell'epoca come Castrum Vetus, tramandataci poi come II Castellaccio . Essi sono visibili sopra un promontorio che si innalza tra le valli del Crocifisso e di San Mauro, fiancheggiato a Sud-Est dal monte Lastrichello e a Nord- Ovest dal monte Tirone.
La nascita di Lentini (Leontinoi'), fondata dai calcidesi nel 729 a. C., si inquadra nel movimento della colonizzazione greca. Dionigi di Siracusa fortificò il promontorio che, secondo qualche studioso potrebbe essere identificato con il forte Bricinna menzionato da Tucidide in occasione delle discordie civili che insanguinarono la città agli inizi del V secolo a.C. Conquistata poi dai romani di Marcello (212 a.C.) e sottoposta al dominio arabo prima e poi risollevatasi con la conquista normanna, la città raggiunse un buon livello di floridezza in epoca sveva. L'imperatore Federico già amante delle terre vicine di Augusta e Siracusa, destinò questo sito strategicamente perfetto al controllo di tutto il territorio e del mar Ionio, mediante l'edificazione di un castrum. La città peraltro era stata già oggetto di interesse da parte dello svevo, il quale nel 1209 si trasferì da Palermo a Catania come ci riferisce Rocco Pirro.
Sconfortato dalla morte prematura del cognato Alfonso e dal propagarsi di un'epidemia tra il seguito reale ritemprò il proprio spirito nelle terre di Lentini. "Il giovanissimo Imperatore, che già maturava in sé una fervida passione per la storia naturale, lasciò più di una volta la nuova sede, dividendo il suo tempo tra i boschi del Murgo e i silenzi del Pantano e del Biviere, attrattovi dall'abbondanza della caccia e della pesca". Nel 1223, dopo aver domato la rivolta musulmana di Sicilia, relegò una parte dei ribelli ai castra di Lentini e Siracusa. Dieci anni dopo convocò a Lentini il Parlamento siciliano (in solemni colloquio apud Leontinum).
Angolo Nord-Ovest.





Ricca di nomi lentinesi si rivela la corte federiciana a cominciare dal famoso Riccardo sino a Jacopo e a Giovanni da Lentini, prova del fatto che l'Imperatore frequentava in maniera particolare questo territorio.
Circa la costruzione del castrum i documenti più importanti, come avviene per il castello di Siracusa, sono le famose lettere lodigiane del 1239 inviate a Riccardo da Lentini, a Guglielmo di Anglone e al Majore de Plancatore. Soprattutto da quella inviata alpraefectus novorum aedificiorum Riccardo apprendiamo notizie sui lavori e sull'approvvigionamento al Castrum Vetus che ci permettono di porre i termini cronologici del cantiere tra il 1223 e il 1239 e, allo stesso tempo, ci offrono una situazione simile a quella dei cantieri di Siracusa e Augusta. Il Castellacelo si inquadra tra i castelli rinnovati da Federico; si imposta infatti, su una precedente fabbrica di età greca, come vedremo.
Le vicende storiche successive al periodo svevo vedono il Castellacelo passare agli angioini. Nel 1282, durante i Vespri, il governatore di Lentini, Papirio Comitini si rinchiude tra le sue mura, ma viene tuttavia ucciso. Nell'ottobre dello stesso anno Pietro d'Aragona nomina castellano Riccardo Passaneto.
Nel corso del XIV il Castellacelo è teatro degli scontri tra le famiglie Ventimiglia e Chiaramonte fino a quando Blasco Alagona assedia ed espugna la fortezza.
Nel 1394 resta sotto il potere di re Martino sino a quando, nel 1414 la regina Bianca di Navarra assegna al castello un castellano, un vicecastellano, un portiere, dodici inservienti e un cappellano.
Nel 1434 Alfonso V concede il castello a Vincenzo Gargallo, come confermato dal testo di una lapide ritrovata nel 1814 tra i suoi ruderi.
Nel 1542 il castello viene notevolmente danneggiato dal terremoto.
Nel 1693 subisce sicuramente i danni gli ultimi causati dal tremendo evento sismico del gennaio di quell'anno. Si riteneva sino a qualche tempo fa che il castello fosse caduto totalmente in abbandono.
Ma, come ci informa S. L. Agnello, un documento datato 1735, trovato di recente da Gioacchino Gargallo, ci dà notizia che in quell'anno la guarnigione del castello ricevette una fornitura di polveri, prova quindi della continuità d'uso della fortezza anche dopo il terremoto.
Le sue rovine furono viste e descritte dall'Amico e dal Fazello. La sua identificazione precisa e puntuale si deve a G. Agnello il quale accoratamente scrive:" l'opera tenace di trasformazione agricola, secondata dall'incessante azione degli agenti atmosferici, tende a livellarne i ruderi che si disgregano e spariscono sotto ingenti masse di terra, mentre la vegetazione rigogliosa ne oscura la visione con la sua densa macchia verde".
Sala ipogeica.

Si deve poi arrivare al 1986 per vedere pubblicati i risultati dei primi interventi di restauro e valorizzazione del Castellacelo di Lentini operati dalla Sovrintendenza ai Beni Culturali di Catania, con la collaborazione di
quella di Siracusa, che hanno però interessato soltanto l'ambiente sotterraneo.
Attualmente in proprietà del comune di Lentini risulta in stato di totale abbandono e perciò non è fruibile.
Scriveva G. Agnello nel 1935: "Forse tra un secolo, se un più pietoso culto per le glorie patrie non si appresti a salvare dallo sfacelo le ultime rovine, del glorioso castello sarà sparita ogni traccia".
Nella speranza che questa profezia non abbia ad avverarsi ci si auspica non solo un pronto intervento di salvataggio dei pochi resti murari che rischiano di precipitare nel fondovalle, ma anche di una vera e propria campagna di scavi, mai tentata, che miri al recupero delle parti ancora giacenti sotto il terreno. Il ritrovamento occasionale e fortuito di una capitello svevo oggi conservato nei magazzini del Museo di Lentini, è una prova tangibile dell'esistenza di altri materiali che potrebbero fornire elementi per un tentativo di ricostruzione degli ambienti e dell'apparato scultoreo che pur doveva esistere.
La situazione topografica del sito dove nel medioevo sorgerà il Castrum Vetus, non era certo stata trascurata dai greci fondatori di Leontini i quali, creando dei tagli artificiali, veri e propri fossati, avevano bloccato le principali vie d'accesso da Nord proteggendo la città in maniera efficace. Paragonabile per concezione alla fortificazione dell'Epipole (Castello Eurialo) di Siracusa, questo sistema si avvaleva di due grandi fossati, uno lungo circa 70 metri e l'altro circa 50, profondi e larghi 20 metri. Entrambi i fossati sono collegati alle alture del Tirone (ad Ovest) e del Lastrichello (a Sud) da due istmi. Tracce d'imposta di un ponte levatoio sono state rilevate sull'istmo ad Ovest. Lungo la parete del fossato occidentale esistono due file di tre piombatoi abilmente tagliati attraverso i quali si potevano far precipitare massi sui nemici che avessero superato i fossati. Riguardo ad opere murarie del periodo classico ne esiste una identificata vicino all'istmo del fossato occidentale: si tratta di una cortina lunga circa 10 metri realizzata con conci di pietra calcarea dei quali rimangono sei filari.
Molti studiosi sono d'accordo nell'identificazione di questo forte con il Arianna delle fonti85. Da non trascurare la frequentazione nella fase cristiano-bizantina, attestata da un vero e proprio insediamento rupestre lungo il versante Ovest, di cui rimangono le tracce deturpate e letteralmente lacerate in tempi moderni. Esistono miseri avanzi di una chiesetta in grotta con tracce di affreschi lungo le pareti86.
La costruzione del castello svevo sulla preesistente fortezza greca diede un'impronta decisamente nuova e maestosa al promontorio: con le sue mura possenti la cui altezza veniva accentuata dai profondi fossati e dalle valli naturali, il castello doveva apparire come un vero e proprio nido d'aquila e "dominatore superbo", per usare una definizione di G. Agnello87.


L'attuale accesso al Castrum Vetus avviene attraverso un viottolo che si lascia alla destra il fossato sud-est, oggi colmato dalla presenza di un agrumeto88 e conduce alla rocca dal lato Sud. Il primo rudere che ci appare è quello che ha conservato il maggiore numero di conci ancora in piedi relativo ad una delle tre torri (tribus turribus) costruite nell'ambito della roccaforte come si legge nella lettera lodigiana scritta dall'imperatore a Riccardo da Lentini.
Lungo il lato Sud, proprio dove esiste la cortina muraria di epoca greca, si imposta una poderosa struttura in conci di grandi dimensioni (m 1,60 x cm 45-55) allettati con malta, della quale rimangono 15 metri in larghezza e 10 metri in altezza per un totale di una ventina di assise. Le misure dei conci diminuiscono nelle assise superiori creando un suggestivo effetto di continuità con la parete rocciosa artificialmente tagliata. Essa si configura a mó di prua di nave dominando il fossato sottostante. Nel '500 il Fazello menziona l'esistenza di quest'opera definendola arx triangolare, cioè a forma di triangolo i cui vertici erano orientati secondo i tre capi della Sicilia. Anche l'Arezzo riferisce della sua forma con tre angoli. L'Amico nel XVIII secolo la descrive ridotta in rovine a causa dei terremoti. Appare evidente e per le fonti e per la strutturazione che essa sia una delle tre torri che facevano parte del Castellacelo. All'interno dei resti della torre è ancora leggibile, nonostante i numerosi crolli, la presenza di un ambiente rettangolare con relativa porta (larga m 2) che dava l'accesso ad un ambiente sotterraneo oggi interrato: sulla sua funzione solo indagini mirate potrebbero far luce. È oggi difficile dire in che modo la torre si collegasse con la cortina muraria del versante sud-orientale essendone scomparsa ogni traccia. A difesa del lato meridionale della roccaforte doveva esistere un muro che, piegando ad Est, si collegava con la torre: un breve tratto è ancora miracolosamente in piedi in una posizione di "slittamento" verso il fondo valle. Lo chiameremo il "muro dei marchi" perché sui suoi conci ne sono leggibili ancora parecchi, ma per quanto tempo ancora? G. Agnello (intorno al 1930) ne misura 10 metri lineari oggi non più tutti conservati.

"Muro dei Marchi" lato Ovest.


Sarebbe un vero peccato perdere quest'unica pagina ancora con i segni dei lapicidi abbastanza ben conservati e che con molta probabilità fa parte di quel rifacimento menzionato nella lettera lodigiana che guardava al Castellum Novum, rivolto proprio ad occidente.
Tratti di mura si possono ancora vedere sul lato occidentale che risulta particolarmente protetto dal fossato preesistente. Qui la natura geologica ha creato erosioni non indifferenti e l'uomo ha scavato numerosi ingrottamenti. Lungo la parete rocciosa sono presenti i piombatoi di cui si è già parlato.
La parete Nord che domina la valle del Crocifisso è quella maggiormente danneggiata dalle frane, ma nell'angolo Nord-Ovest resiste un breve tratto di muro dell'altezza di m 1,85. Esso conserva due feritone rettangolari, forse anch'esse con la funzione di piombatoi.
Il muro è praticamente scollato dal piano di roccia. Sul pianoro, tra le sterpaglie, si riesce a fatica ad individuare qualche altro resto. Parallelo al bordo occidentale che guarda al monte Tirane, alla distanza di m 5, rimane la parte basamentale di un muraglione lacunoso del rivestimento, lungo m 30 con uno spessore di m 2,40 che in origine doveva essere di 2,60 con un'interruzione nella parte mediana che potrebbe essere interpretata come l'apertura di un portale.
Questa cortina si colloca nel probabile sito di una torre ottagona a difesa della porta rivolta ad occidente, una delle tre torri menzionate nella lettera lodigiana.
L'esistenza di questa torre è ricordata dall'Amico che ancora alla metà del settecento ne descrive ingenti rovine con conci recanti i marchi dei lapicidi, ma era già scomparsa ai tempi del sopralluogo di G. Agnello. Della terza torre, ubicata forse a difesa del lato di Nord-Est, nulla al momento è visibile. La funzione strategica della torre ottagona è similmente organizzata come quella triangolare a Sud-Est. Nel caso in cui il nemico fosse riuscito a superare i fossati e gli istmi relativi si sarebbe trovato di fronte a queste imponenti torri collegate con le cortine murarie, praticamente inespugnabili. (Durante lavori di ripulitura si rinvenne casualmente un capitello svevo proprio in questa parte ora descritta).
Due cisterne al centro e una con cunicoli, prossima al lato Nord, indicano che l'approvvigionamento idrico fu uno dei maggiori problemi qui risolti, i cui meccanismi rimangono ancora non studiati.
Nella parte Sud-occidentale attraverso una porta e discendendo una scala composta di 22 gradini (lunghezza m 9, altezza m 2, larghezza m 1,50) coperta con volta a botte a tutto sesto realizzata con conci di calcarenite di raffinata fattura, si accede attraverso un vestibolo (m 1,60 x m 1,50) servito da due porte delle quali rimangono le incorniciature, ad un ambiente sotterraneo. Tutto il sistema è stato oggetto dell'intervento di restauro operato dalla Sovrintendenza di Catania nel 1986.1 gradini della scala sono stati rivoltati perché troppo logori; di integrazione è un buon tratto della copertura a botte della scala. Il confronto più immediato è con la scala del cosiddetto Bagno della Regina nel castello di Siracusa, anche se qui, a Lentini, non esiste più l'elemento murario ove sicuramente si innestava l'ingresso alla scala, oggi interamente rifatta.
La scala di Lentini portava ad una ambiente sotterraneo di forma rettangolare (m 16,72 x m 5,58) sicuramente scavato nella roccia le cui pareti furono rivestite da un paramento murario con conci di misura più o meno regolare poggianti su banchinamento. Nulla rimane del piano di calpestio medievale.
Lungo la parete est si legge la data del 1579, sicuramente relativa ad un restauro della stanza ipogeica, sulla cui realizzazione in periodo federiciano non dovrebbero esservi dubbi dal momento che i conci presentano ancora numerosi marchi confrontabili non solo con quelli esistenti sul frammento del "muro dei marchi", ma anche con quelli del "Castello "di Siracusa. Certamente oggi la lettura dei marchi è difficilissima a causa della corrosione dei blocchi. E noto come il Fazello, osservandoli, agli inizi del XVI secolo, rimanesse affascinato e meravigliato dalla loro presenza fantasticando sulla loro funzione.




La sala è scompartita in cinque settori (larghezza m 3) dai quattro semipilastri (altezza m 2, 87) a parete oggi alquanto frammentati, ma che ci permettono di leggere le imposte delle ghiere d'arco che decoravano (e non supportavano, esattamente come a Castel Maniace) la copertura con volta a botte a sesto acuto. Ogni scomparto della volta presenta due dispositivi di apertura verso l'esterno sulla cui interpretazione restano molti dubbi. Se si tratta di areatori si potrebbe interpretare l'ambiente sotterraneo come magazzino per le granaglie, se si tratta di caditoie la funzione del sotterraneo diventa strategica.
"L'esistenza del sotterraneo sarebbe inspiegabile se non fosse possibile porlo in collegamento con un sistema di vie segrete attraverso le quali si potesse raggiungere, in caso di necessità, l'esterno del castello"89.
Numerose sono ancora le parti sotterranee da esplorare come ad esempio i cunicoli di una cisterna e quelli che dalla cosiddetta Grotta delle palle lungo il lato meridionale del promontorio, che secondo A. Pavone, potevano essere in comunicazione con la sala in esame.
L'ultimo rudere da segnalare e da ricordare prima che precipiti a valle è relativo forse ad una cappella. Si tratterebbe della parte absidale, del diametro di m 4, oggi sul bordo dello strapiombo. A prima vista la tecnica muraria farebbe pensare ad opera bizantina a meno che, come vuole qualche studioso, essa non rappresenti Yemplecton, cioè il rinzeppamento del muro svevo il cui fodero è andato perduto.
L'esistenza di una struttura chiesastica al Castellaccio viene ricordata nel 1675 quando, per timore di una attacco dei francesi che avevano assediato Lentini, si mise in salvo un'antica tavola raffigurante la Madonna conservata da secoli nella fortezza, ancora oggi conosciuta con il nome di Madonna del Castellò 90.
La presenza di una ipotetica cappella nell'ambito di questa roccaforte militare già risalente al periodo svevo è ancora da ponderare attentamente. La presenza inoltre di "numerosi ambienti sia a pozzo (con pareti verticali rivestite in conci squadrati) che a volta (con botola in sommità), ancora tutti da esplorare" ci pone ancora una volta di fronte al grosso problema conoscitivo di questo straordinario complesso monumentale la cui soluzione non può essere data da argumenta ex silentio.
Le poche tracce monumentali del Castellaccio di Lentini in una situazione naturalistico-ambientale di straordinaria suggestione, si pongono come uno stimolante puzzle che solo attraverso una seria e scientifica indagine esplorativa potrà essere ricomposto.
Marchio inciso su uno dei conci del "Muro dei Marchi", lato Ovest.

 

NOTE
77-1239 Lettera scritta dall'imperatore da Lodi a Riccardo da Lentini (Carcani 1786, pag. 270).
78-G. Agnello "L'architettura sveva in Sicilia", pag.251.
79-1223 Dopo aver domato la rivolta dei musulmani di Sicilia Federico relega una parte dei ribelli nei castra di Lentini e Siracusa.Pisani-Baudo 1908, II, pag. 403. Nel 1223 il Castello Maniace di Siracusa non era ancora neanche stato progettato. Se, quindi Federico ha deportato i musulmani anche in un castrum di questa città è questo, con ogni probabilità da ricercarsi nello scomparso Castello Marieth, posto all'imbocco dei Ortigia e rovinato durante il terremoto del 1542.
80-De eo vero, quod de muris luto confectis in castro nostro Centini versus castellum novum melius reformari de incisis cantonibus tribus
constructis in eo, utpote nobis placise commendabilis presentati (Carcani, pag. 509). Federico II cos ì si esprime nella lettera
lodigiana inviata a Riccardo nel 1239. Dal testo si evince che Riccardo aveva fatto rinnovare le mura del castello, costruite in precedenza con luto poco saldo utilizzando incisis cantonibus, cioè blocchi calcarei ben squadrati, inserendovi per potenziare la difesa, tre torri. Apprendiamo anche che i rifacimenti riguardano la parte muraria rivolta verso il "castello nuovo" della cui esistenza veniamo automaticamente a conoscenza. Nello stesso tempo apprendiamo i due diversi termini : castrum per il "Castellacelo" e castellum per la struttura non più esistente.
81-In G. Agnello, op. cit. pag.266, n°3 che cita ASPA, Protonotaro del Regno, reg. 3 c. 506.
82-S. L. Agnello "Il contributo di Alfio Scalambro alle ricerche su Lentini medievale e moderna" in"Un trentennio di indagini nel territorio di Lentini antica", Atti dell'incontro di Studi su Alfio Scalambro: un impegno per i Beni Culturali, Comune di Lentini- Rotary Club Lentini, pag.41.
83-G.Agnello, op. cit. pag. 268
84-A. Pavone "Primi interventi di restauro e valorizzazione del Castellacelo di Lentini" in Un trentennio di indagini nel territorio di Lentini antica, Lentini 1986.
85 "Tutte le ragioni etimologico-topografìche convincono della esistenza di Bricinna sulla rocca ove osservansi le rovine del cosiddetto Castellacelo...Tucitide dice che, dispiacendo ad alcuni nobili di Lentini di aver abbandonato la patria, partitisi da Siracusa si rinchiusero in Focea e in Bricinna dalle cui mura si difendevano da quelli della città di Leonzio, il che vuol dire che il Bricinna era vicinissimo alla città" (Pisano-Baudo "Storia di Lentini", vol.I pag. 88).
86 Lo stato di degrado e abbandono che ha colpito questa parte del complesso monumentale del Castellacelo di Lentini raggiunge qui un livello veramente pauroso e in alcuni punti (ad esempio gli affreschi) forse irreversibile. L'agrumeto è stato espropriato dal comune di Lentini operando un intervento di tutela di quello che è uno dei fossati del "Castellaccio", ma proprio su questo versante del promontorio sono avvenute di recente frane che rendono pericoloso persino un sopralluogo. Il frammento del muraglione svevo sul ciglio dello strapiombo, ormai scollato dalla parete rocciosa è destinato a precipitare molto presto. La stessa situazione incombente sul "muro dei marchi" suggerirebbe un pronto intervento di smontaggio di ogni singolo blocco per una tutela immediata di una pagina scritta dagli scalpellini che lavorarono nel cantiere del Castellaccio.
87-Conviene qui sottolineare il fatto che anche l'archeologo Paolo Orsi riteneva che il "Castellaccio, sul quale sorgeva il grande castello svevo di Federico II" sorgeva "sulle rovine di altri più antichi: chè ampi tagli nelle pareti rocciose, e scarpate di massi alludono ad opere di età anteriore: qui fu il perno della difesa della piccola Leonzio medievale, più arretrato della linea greca". Nello stesso testo l'archeologo roveretano ci informa che il 10 marzo del 1931, insieme all'inseparabile disegnatore R. Carta, al restauratore G. Damico e al prof. G. Agnello (che da lì a poco pubblicherà l'opera sull'Architettura sveva in Sicilia), ispezionò meticolosamente il sito: "così l'archeologo e il medio- evalista sentivano il bisogno di comperarsi, controllando a vicendà le loro impressioni, i loro pareri". P. Orsi ritenne che il "Castellaccio", così come pervenuto, fosse decisamente di impianto federiciano: "Non abbiamo osservato un solo masso che si possa dichiarare greco, ed anche le numerose sigle di cui tutta l'opera è costellata non sono affatto greche, ma rispondono allo scrupolo con quelle del castello Maniace di Siracusa - E svevo per eccellenza è il grande ambiente sotterraneo con volta ogivale nel centro del colle. Si deve ritenere che gli ingegneri militari del gran Federico abbiano fatto un repulisti generale di quanto esisteva di più antico del colle, traendone abbondante materiale lapideo, di nuovo riquadrato ed adattato alla nuova opera". Anche per i fossati, probabilmente preesistenti nelle linee generali, Orsi si esprime allo stesso modo e, in particolare per quello settentrionale che ritenne totalmente ampliato e rinnovato da parte delle maestranze federiciane. (P. Orsi in "Scavi di Leontini-Lentini", Società Magna Grecia, 1931).
88-G. Agnello, op. cit. pag. 268.
89-A. Pavone, op. citata.
90-L'antico dipinto è conservato nella Chiesa Madre di Lentini. "La tradizione narra che il quadro fu trovato nel 1240 lungo la marina lentinese da marinai di Lentini e di Catania e che essendo sorto un contrasto per il possesso tra i marinai delle due città, i Lentinesi riuscirono ad impadronirsene mediante un'astuzia e portarlo nella Chiesa Madre. Ma per il timore di esserne derubati dai catanesi, i quali intanto avevano deferito la questione alle autorità ecclesiastica, lo rinchiusero nel castello, donde ogni anno, per la ricorrenza della festa di S. Pietro e durante le più gravi calamità cittadine, lo portavano in giro per la città: La tradizione precisa ancora che l'immagine fu dipinta da S. Luca, di cui nel Seicento si pretese persino di vedere la firma in fondo alla tavola! L'immagine, dipinta sul recto, è ricoperta di lamina argentea cesellata e le parti scoperte sono talmente annerite dal tempo, da non consentire un'attendibile esame stilistico. Nell'insieme sembra ispirata a tarde forme bizantine. Sul verso è attaccata una tela, avente per soggetto Cristo e la Madonna, i quali supplicano il Padre Eterno a favore di una turba di fedeli" (G. Agnello, op. cit. pag.267 n.1.
91-Pavone, op. citata.
CASTELLUM NOVUM
Dalle lettere lodigiane più volte menzionate veniamo informati dell'esistenza di un Castellum Novum che sorgeva non distante dal Vetus, a sud-ovest, sulla collina compresa tra la valle di Sant'Eligio e la Valle dei Cappucini. Durante il periodo angioino e aragonese il Castellum Novum rimase residenza dei sovrani e lo troviamo menzionato in un documento del 1339. Riferisce il Fazello che il Castellum Novum (menzionato anche comepalatium nelle lettere lodigiane) ubicato ad occasum del Castrum, rovinò interamente a causa del terremoto del 1542 tant'è che oggi nulla rimane. Esso sembrerebbe essere collegabile più a un palatium o a uno dei solatia federiciani che ad una costruzione di tipo difensivo e, infatti, secondo il Fazello, dopo il terremoto del 1542 non fu oggetto di rifacimenti e restauri.
L'evento sismico del 1693 completò sicuramente il crollo delle superstiti strutture che ci appaiono come un cumulo di rovine in una carta topografica del XVII secolo.
L'Amico descriveva ancora questi resti alla metà del 1700. Oggi qualunque tentativo di ricerca in superficie di frammenti murari o conci risulta totalmente negativo ed è veramente scoraggiantepensare a questa irreversibile cancellazione di una pagina della storia federiciana. Forse un'indagine sistematica da parte degli organi competenti potrebbe ancora portare alla luce elementi tali da farci ricostruire l'icnografia o almeno la pianta di un edificio extraurbano che rappresentava l'aspetto di completamento della fortificazione del Castellaccio. Questi due elementi architettonici si fronteggiavano in un contesto topografico suggestivo dominando la città di Lentini delle cui fasi storiche medievali quasi nulla è, per il momento, ricostruibile.
NOTE

92Fra Michele Piazza, in Gregorio 1791-92 I, pp.88-
114, pag. 53.
® Tota namque ex Regia, quam castellum novum appeliant, arce et privatis omnibus aedificiis disiectis solo aequata est. Altera quoque Regia Tironis nomen habens, cum superiori triquetrae ardi parte eversa, Fazello 1749, II, 10, pag. 631.
Non ci soccorrono purtroppo, ai fini di una ricostruzione dei due castelli, gli schizzi contenuti in due carte settecentesche che raffigurano Lentini perché realizzati in maniera troppo sommaria e con evidente fanta sia da parte degli artefici. Le stampe dei primi del XVII] secolo sono riprodotte da G. Agnello, op. citata.



















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