Simulacro Santa Lucia - Santi siracusani

Antonio Randazzo da Siracusa con amore
Santi Siracusani
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Simulacro Santa Lucia

simulacri a confronto di Ernesto Maria Puzzo




il simulacro argenteo di Santa Lucia a cura di Giovanni Di Raimondo

documentazione pdf










Quattro secoli di immutata bellezza artistica e di straordinaria fede e devozione del popolo siracusano rendono lustro e omaggio all'argenteo Simulacro della Nostra Patrona, Santa Lucia.
Grande e magnifico capolavoro d'oreficeria siciliana fu realizzato tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento da due grandi orafi, Nibilio Gagini e Pietro Rizzo, quest'ultimo definì compiaciuto l'artistico Simulacro "la più bell'opera d'Italia". E attraverso la raccolta storica e appassionata del Prof. Giuseppe Agnello che si vuole ricordare la nascita artistica di questa grande e insigne opera dell'argenteria siciliana del sedicesimo secolo.Nel settore delle
argenterie la realizzazione più vistosa, che anche oggi ci colpisce e ci riempie di stupita ammirazione, è rappresentata dalla statua e dalla cassa argentea del Simulacro di Santa Lucia: la prima uscita dalla bottega palermitana di Pietro Rizzo, l'altra, forse, da quella di Nibilio Gagini, che seppe farne una delle più grandi opere della argenteria del diciassettesimo secolo. Le notizie ammannite dagli analisti siracusani sull'origine della cassa sono in molta parte o lacunose o contraddittorie. Due notevoli documenti, rinvenuti nell'Archivio di Stato di Siracusa permettono di fissare dei sicuri punti di partenza di cui è necessario tener conto nella valutazione dell'opera d'arte. Risulta dal primo di essi che, con deliberazione del 19 agosto 1600, venne approvata l'applicazione di una imposta straordinaria per provvedere alle spese richieste dai festeggiamenti che si preparavano in città in occasione dell'arrivo de "l'Immagine d'argento della gloriosa nostra Padrona S. Lucia" "già spedita nella città di Palermo" (doc. 1). Tale deliberazione venne ratificata dal Viceré di Sicilia, Duca di Maqueda, con decreto del 22 settembre dello stesso anno; da esso ancor più chiaramente appare che la statua di S. Lucia, fatta fare nella città di Palermo era di già finita ed era riuscita "la più bell'opera che sia in Italia" (doc. 2). Risulta altresì da un successivo documento del 1611 che il Senato siracusano chiese, in detto anno, al Viceré di Sicilia l'autorizzazione a poter "fondere et reducere in massa" "alcune quantità di monete vecchie quale sono rimaste in potere di esso depositario (della chiesa di S. Lucia) ad effetto di fabbricarse et finirsi una cascia (cassa) di argento quali molti anni sono si have incominciato senza mai potersi dare il compoto del denaro necessario a tale effetto" (doc. 3).
La statua e la cassa, come appare evidente, furono costruite in tempi diversi. Però se i "molti anni", di cui è fatta precisa menzione in quest'ultimo documento, vengono interpretati con un certo criterio estensivo, si può arrivare, per la datazione della seconda al secondo decennio del secolo diciassettesimo. Compiuta, cioè, la statua, che porta inciso, assieme al nome dell'autore, anche la data del 1599, dovette sorgere spontaneo nei committenti il desiderio di adeguare ad essa la sottostante cassa.
L'ingente spesa ne rese estremamente lunga l'esecuzione, perché fu solo sotto l'episcopato del munifico vescovo Giovanni Torres (1618) che il Simulacro fu solennemente benedetto ed esposto al pubblico culto. L'opera si compone di tre parti nettamente distinte, ma tuttavia collegate da un unico indirizzo artistico: la statua, la cassa, la base. La statua è alta 1,54 metri: l'espressione piuttosto rigida della persona è moderata da una tenue inflessione del piede sinistro, mentre il destro si allunga, in senso divergente, mettendo in evidenza il ginocchio sotto il groviglio delle abbondanti pieghe della veste e del manto, quest'ultimo sorretto dal braccio sinistro; il destro, invece, si protende con una certa rigidità statuaria portando la tazza argentea, in cui la tradizione collocò gli occhi della vergine, rinati più fulgidi dopo l'olocausto della sua beltà terrena. Il volto, chiuso in un dolce ovale dalle trecce dorate, che scendono ondeggianti lungo il collo, è plasmato in smalto. Il sottostante zoccolo cubico (m 0,53 x 0,51) contribuisce arendere più agili le linee della statua. Gli angoli sono rivestiti da quattro leggiadre figure di serafini alati. Le ricche cesellature delle cornici e della fasce riproducono i motivi decorativi della cassa, accogliendo, nel centro di ciascun lato, un disco ovale, con iscrizioni relative ai restauri eseguiti verso la metà del Settecento.
Nel disco frontale sono incise le iniziali del Senato Siracusano. La cassa, interamente sorretta da robusto telaio ligneo, è a base rettangolare, con coperchio e fondo a piramide tronca; misura m 1,75 di lunghezza e m 1 di profondità. I fianchi sono suddivisi in scomparti rettangolari i quali accolgono sei pannelli di lamina cesellata, con episodi della vita della Santa. Gli angoli sono rafforzati da pilastri in aggetto, in cui si affondano otto nicchie con altrettante statuine a tutto tondo di vescovi; sovrastano quattro artistici vasi di lamina argentea che ne completano la decorazione (questi vasi furono fatti eseguire dal Senato Siracusano nel 1768 e aggiunti quindi alla statua). La cassa grava su quattro aquile d'argento, dalle grandi ali dispiegate recanti sul petto lo stemma a cui è collegata da una sottostante base rettangolare o sottocassa: è anch'essa rivestita d'argento e ornata di decorazione a rilievo. In tal modo il Simulacro raggiunge la considerevole altezza di 3,70 metri, rapportandosi, come linea architettonica, ai modelli statuari del Sei e del Settecento, piuttosto che alle urne reliquiarie della tradizione medievale. Il carattere fondamentale dell'opera siracusana è dato dal I trionfo delle superfici piane, occupate nei fianchi da pregevoli quadri in ce- I sello: composizioni animate che infondono, col loro vivace rilievo plastico, un senso di vita all'arca su cui si aderge, Icome su ampia base, la statua. Il pannello frontale rappresenta l'episodio del seppellimento di S. Lucia; esso riproduce, nell'aggruppamento della figure, la famosa tela del Caravaggio, della quale si può considerare come un prezioso commento, perché ne mette in risalto taluni particolari andati distrutti nei tardi rimaneggiamenti. In un secondo è riprodotto uno dei soggetti meno frequenti nell'iconografia della Santa: Lucia dispensa ai poveri le sue sostanze. Un netto distacco, sia per la tecnica costruttiva che per l'aggruppamento delle figure, segna gli altri quattro pannelli. Nel primo è rappresentato l'interrogatorio della Santa da parte del tiranno. Il secondo rievoca il miracolo della prova del fuoco. Nel terzo è richiamato il prodigio non meno noto della Santa, immobile come torre dinanzi alla furia impotente dei buoi, invano aizzati dalla rabbia dei manigoldi.
L'ultimo accoglie la scena della comunione della Vergine: in esso acquista particolare risalto la figura veneranda del Vescovo mentre, in mezzo ad una fitta schiera di popolo e di religiosi amministra alla Santa il pane eucaristico.
Questi quattro pannelli debbono essere considerati come tarda utilizzazione di elementi tratti da una più antica cassa reliquiaria.
I quattro pannelli devono aver fatto parte di qualche opera argentea eseguita sul declinare del sec. XV o nei primi del XVI. Quando poi, nei primi dei Seicento, ultimata la statua, si iniziò il lavoro dell'artistica cassa, le gravi difficoltà incontrate per il suo compimento dovettero indurre i committenti del tempo ad utilizzare e forse, in gran parte, fondere, nella nuova opera la preesistente arca reliquiaria. Ma di questa cassa del sec. XV, dalla quale riteniamo che siano derivati i quattro pannelli di cui s'è fatto cenno, e di un'altra del secolo precedente, ricordata in un diploma del 1344, non si trovano più tracce.
Dall'esame dei documenti di archivio e dalle memorie manoscritte appare chiaramente che, sin dalla prima metà del Seicento, tanto la Statua che la cassa andarono soggette a reiterati lavori di restauro, imposti, soprattutto, dalla necessità di rinnovare l'armatura lignea sulla quale è adattato il rivestimento argenteo. Il primo intervento venne effettuato circa vent'anni dopo che la cassa era stata portata a compimento. All'uopo furono adibiti tre orafi messinesi: Vincenzo De Fari, soprannominato Zaffarana, Filippo Russo e Saro Nieli. Il loro compito appare chiaramente determinato: essi avrebbero dovuto "cornare tutti li rutturi, giungiri li piangi (...) e fare complimento delli tacci (■•■), biancheggiato tutta la caxia ", (doc. 5). Il documento, che porta la data del 19 dicembre 1631, ci fa conoscere anche il nome del tesoriere della chiesa di Santa Lucia, Giuseppe Bonanno, principe di Linguaglossa, e il compenso dato agli orafi per i lavori di restauro. Ma i restauri più notevoli furono attuati nel 1763 dagli argentieri siracusani Ascensio Chindemi e Decio Fumò; le loro proporzioni sono precisate dall'iscrizione incisa, in quella circostanza nello zoccolo della base: iscrizione che ha tratto in inganno gli storici locali, i quali videro nei due artisti vissuti nella seconda metà del Settecento, non i restauratori, ma addirittura, gli autori della cassa, che fu, invece, costruita, come è stato rilevato, dentro il primo ventennio del Seicento (docc. 8-9). L'ultimo restauro, il più vasto e complesso dopo quello del 1763, venne effettuato nel 1938. Le maggiori preoccupazioni erano allora destate dalla statua, il cui organi smo intemo era corroso da far temere un imminente infortunio. Fu quindi necessario disfare la statua, smontando tutto il rivestimento della lamina argentea, che venne sottoposta a paziente lavoro di revisione e di suturazione; fu necessario rifare il supporto ligneo, che venne rinsaldato con legami metallici per evitare alla statua ogni possibilità di oscillazione: lavoro lungo e dispendioso, svolto con ammirevole spirito di dedizione da operai specializzati. Anche la cassa fu oggetto di cure, che si estesero ai più minuti dettagli decorativi, ai settori più delicati e, perciò, più facilmente soggetti a guasti e alterazioni. Il Simulacro, dopo tante non infondate preoccupazioni, apparve rinato come per effetto di un miracolo. Quella del restauro si presentò come un'ottima occasione per effettuare alcune opere integrative che dovevano dare nuovo lustro all'opera del Rizzo. Il manto d'argento che ricopre la Santa era originariamente adorno in tutto il suo vasto dispiegamento di una bordura di rame dorato, che contrastava, in maniera stridente, con tutta la massa argentea. Con ingente sforzo finanziario essa venne sostituita con lamina d'oro, abilmente lavorata a sbalzo dagli orafi Salvatore e Raffaele Bruno che riprendevano, con successo, una nobile tradizione artigiana di famiglia. La statua, inoltre, come può rilevarsi da vecchie riproduzioni fotografiche, sorreggeva, colla sinistra, un macchinoso cespo, in cui si affastellavano fiori, foglie, spighe di metallo non pregiato sovrapponendosi come grave massa ingombrante. Parve opportuno quindi, eliminarlo e sostituirlo con una palma d'oro la quale, anche a non tener conto del pregio artistico e del valore intrinseco, ha un più evidente valore apologetico.
La palma fu eseguita da Raffaele Bruno il quale fece dono alla Santa di un ramoscello di argento con gigli.
Maggiormente legate al culto sono le due urne reliquiarie che fanno parte del tesoro della Santa. Stilisticamente esse poco differiscono dalle comuni casse, di cui esemplari ragguardevoli conserva l'argenteria siciliana dei secoli XVI e XVII. Entrambe a base rettangolare, hanno il coperchio tagliato a piramide tronca. La più grande, racchiudeva alcuni indumenti della Santa (ora esposti nella loro intera bellezza nel museo Luciano all'interno della Cattedrale di Siracusa). Le cornici, finemente lavorate, sostengono ricche lamine argentee. Agli angoli statuine a tutto tondo si adergono rigide a guisa di cariatidi tra la cornice della base e del coronamento dell'urna. I costoloni del coperchio sono ravvivati da un ritmico movimento di archetti che si dispiegano a frangia. L'intera massa grava su quattro zampe leonine che si protendono dalla cornice cordonata della base. La cassa proviene dal Monastero di Santa Maria e fu fatta col contributo del Senato che autorizzò nella seduta del 28 marzo 1629, l'erogazione di onze quaranta (doc. 10). Lo stesso schema, ma con più spiccata tendenza allo spiegamento orizzontale, presenta la seconda umetta, generalmente chiusa in una più larga cassa di vetro. Il cesello si appesantisce alquanto nella decorazione nastriforme, che si traduce in una cadenza di motivi floreali, interpretati con audacia di sbalzi. Fu fatta eseguire a completo carico del senato cittadino, con deliberazione del 15 agosto 1651 (doc. 12): se ne conosce l'autore che fu Giuseppe Frisciano. Le due urne trovarono posto per oltre due secoli sopra il grande fercolo argenteo. Ma nei restauri del 1938 essendo state ritenute ingombranti, vennero rimosse. Per il significato storico è stato, invece, lasciato in vista sul fronte della cassa il dono conosciuto col nome di trofeo offerto alla Santa, nel dicembre del 1850 dal Luogotenente Generale, Duca di Taormina, e dalla guarnigione di Siracusa comandata dal Generale Pinedo.
Accanto al Simulacro esiste un patrimonio prezioso che fa parte della storia del culto e di questo riflette alcuni dei momenti più significativi. La corona che recinge il capo della Santa sebbene non prevista nel piano originario è il commosso omaggio del popolo alla Santa che l'aveva liberato prima dalla minaccia della peste e, poi, il 6 gennaio del 1784 dall'inondazione cagionata da uno spaventoso maremoto; nella stessa circostanza furono offerti la tazza e il pugnale.
Il Simulacro, la cui esecuzione era costata la somma ingente di cinquemila scudi, fu solennemente benedetto ed esposto nel 1620 dal vescovo di Siracusa Giovanni Torres.
Doc. 1 Consigli civici della città di Siracusa (Arch. di Stato Siracusa), voi. dell'anno 1599, f. Doc. 2 Ibidem
Doc. 3 Lettere del Senato (Arch. di Stato Siracusa), voi. anni 1611- 1616, f. 45, 3 novembre 1611.
Doc. 5 Not. Domenico Rizzo (Arch. di Stato Siracusa), voi. anni 1631 - 1632, 10 dicembre 1631 ff. non numerati. Doc. 8 Libro Introiti ed esiti della chiesa di S. Lucia extra moenia dal 1762 al 1824.
Doc. 9 Capodieci, Annali, t. XII, 1763, f. 267.
Doc. 10 Consigli civici etc., voi. degli anni 1628 - 1631, f. 23.
Doc. 12 Consigli civici etc., voi. degli anni 1639 - 1664, f. 313 v.
Si ringrazia per la collaborazione mons. Giuseppe Caracciolo e la Deputazione di Santa Lucia.



Antonio Niero Santa Lucia Vergine e Martire

ceramica antica proprietà Antonio Randazzo- rifacimento


Numerosi sono i devoti che vengono a peregrinare fino alle Reliquie della Santa Siracusana. Alcuni giungono persino dal Nord-Europa, altri dall’America.
Ma spesso la pietà non si appaga nel visitare l’Urna o nel recitare delle preci. Vuol conoscere da vicino la Santa protettrice degli occhi.
Esaurita la « Vita di S. Lucia » del compianto prof. don Enrico Lacchin (valoroso docente di storia dell’arte nel Seminario Patriarcale), s’è pensato di prepararne una di nuova, che pur nella brevità tenesse conto degli studi più recenti compiuti dall’agiografia.
La non lieve fatica venne generosamente portata a termine dal carissimo prof. don Antonio Niero (insegnante nel Seminario).
Una piccola ricerca nel nostro archivio parrocchiale diede modo di inserire nel testo alcune stampe illustrative.
Possa ora questo piccolo libro sulla vita di S. Lucia correre nelle mani di molti per accendere nei cuori quella luce soprannaturale di cui la nostra Martire era mirabilmente dotata.
Don Aldo Fiorin
Parroco dei Ss. Geremia e Lucia
Docente di S. Scrittura nel Seminario
ICONOGRAFIA DELLA SANTA
Il culto veneziano della Santa è provato tra l’altro dal Kalendarium Venetum del XI secolo, e poi nei Messali locali del secolo XV, nonché nel Memoriale Franco e Barbaresco dell’inizio del 1500, dove è considerata festa di palazzo, cioè festività civile.
Sin dal 1107 sorgeva una chiesa in suo onore all’estremità occidentale del Canal Grande, forse parrocchia nel 1182, dove poi nel 1313 riscontriamo con sicurezza il corpo della Santa. In essa esisteva la scuola a lei intitolata sin dal 1323, a cui nel 1703 fu aggiunto un sovvegno. Ma in nessun’altra chiesa veneziana notiamo scuole in suo onore, tranne a 5. Moisè, poiché qui sin dal 1313 esisteva una scuola per i ciechi, onde fu naturale il culto alla Santa patrona della vista.
Prova più vasta dell’importanza della Santa nella pietà veneziana è pure desumibile dalla sua iconografia in pale d’altare, per buona parte di origine e sviluppo post-tridentino. Così si veda a S. Marco (mosaici dei secoli XVI e XVII); nella pala con la Vergine e Santi, di Giovanni Bellini a S. Zaccaria; a S. Giovanni in Bragora in polittico di Iacobello del Fiore; in quella di S. Nicolò, del Lotto ai Carmini; a S. Giovanni Crisostomo, nella pala di Sebastiano del Piombo; a S. Martino; a S. Elisabetta del Lido; a S. Stefano nella pala dell’Immacolata, del Menescar¬di; a S. Giorgio Maggiore, di Leandro Bassano; ai Tolentini, del Peranda; ai SS. Apostoli, di Giambattista Tiepolo, ma soprattutto in chiesa, ora, a S. Geremia in tele della demolita chiesa di S. Lucia.
Tralascio le altre documentazioni iconografiche nei musei e raccolte private veneziane, poiché ora non sono più oggetto di culto; alla pari accenno solo al vasto repertorio iconografico nella pittura veneziana e veneta, fuori di Venezia, come, per fare un nome, in Cima da Conegliano. Nell’ambito della diocesi, si notino le storie della Santa in affresco del duomo di Caorle, navata destra, di anonimo trecentesco, e la Santa in pala di altare laterale nella chiesa di Oriago, di anonimo settecentesco; in altare laterale nella chiesa di Chirignago di anonimo neoclassico.
Il tipo iconografico, sino al periodo post-tridenti¬no, non sempre la dà con gli occhi in mano: a volte, come in Cima, tiene la lampada verginale fra le mani (poittico di Olera; pala di Lisbona); il motivo degli occhi sul bacile di argento, sebbene sia presente anche in fase pre-tridentina, è poi costante in quella post-tridentina.
STORIA DELLE SUE RELIQUIE
Il corpo di S. Lucia rimase in Siracusa per molti secoli: dalla catacomba, dove fu sepolto, fu poi portato nella basilica eretta in suo onore, presso la quale, all’inizio del VI secolo, fu costruito un monastero. Nella minaccia araba per il suo sepolcro nell’878, dopo la conquista islamica della Sicilia, il suo corpo fu nascosto in un luogo segreto. Nel 1039, appena Maniace, generale di Bisanzio, riuscì a strappare Siracusa agli Arabi, condusse le reliquie a Costantinopoli, o come preda di guerra o, secondo l’affermazione della Cronaca del doge Andrea Dandolo, su preciso ordine degli imperatori Basilio e Costantino. Invece secondo la tradizione francese, il corpo della Santa fu levato da Siracusa nel corso del secolo VIII da Feroaldo, duca di Spoleto, dopo la conquista della città che lo recò a Corfinio, donde il vescovo di Metz lo avrebbe trasferito nella sua città episcopale. Indubbiamente qui si sviluppò un culto attorno a codèste reliquie, sebbene, viene notato giustamente, si tratti di un’altra martire siracusana, di nome Lucia e confusa per omonimia con la nostra Santa. La linea maestra della tradizione afferma che il suo corpo fu tolto da Costantinopoli nel 1204 dal doge veneziano Enrico Dandolo, dove lo aveva trovato assieme a quello di S. Agata, ed inviato a Venezia. Invece secondo una variante, documentata dal codice secentesco, o Cronaca Veniera, della Biblioteca Marciana di Venezia (It. VII, 10 (= 8607) f. 15 v.), esso sarebbe stato portato a Venezia, assieme a quello di S. Agata, nel 1026, sotto il dogado di Pietro Centranico. Non sappiamo l’ori¬gine della notizia e se derivi da una fonte anteriore, per quanto un fondato sospetto induca ad un errore meccanico di amanuense, che ha letto 1026 per 1206, cioè gli anni della traslatio ufficiale. E nella Cronaca Veniera lo si accettò, armonizzando il fatto con il doge dell’epoca. Certo è difficile una precisazione sto¬rica di codeste reliquie, esente da qualsiasi sospetto, almeno allo stato attuale delle cose; per noi è pru¬denza elementare prendere atto della presenza del suo corpo in Venezia sin dal 1204. Ma si noti che in Venezia esisteva già una chiesa dedicata alla martire nel 1167 e 1182, come lo provano inequivocabili documenti, per cui è probabile che la determinazione di trasferire le reliquie nelle lagune sia stata originata dalla necessità di arricchire una chiesa veneziana, come d’altronde si verificò per altri casi consimili.
Comunque a Venezia il suo corpo fu collocato nella chiesa di S. Giorgio Maggiore e determinò un flusso di pellegrinaggi, che nel giorno d’ella festa (13 dicembre) assumeva proporzioni impressionanti, nel-l’andirivieni di imbarcazioni. Il 13 dicembre 1279 accaddero tragici fatti. Alcuni pellegrini morirono an-negati in seguito al capovolgimento delle imbarcazio¬ni per l’insorgere di un turbine improvviso.
Il Senato, ai fini di evitare ancora consimili doloro¬si incidenti, decise che il corpo della Santa fosse portato in una chiesa di città. Fu scelta la chiesa di S. Maria Annunziata o della « Nunciata » nell’estremo sestiere di Cannaregio, dove furono poste le preziose reliquie trasferite da S. Giorgio il 18 gennaio 1280 con una solenne processione.
Nel 1313 fu consacrata una nuova chiesa dedicata a S. Lucia, nella quale le reliquie della Santa furono deposte definitivamente.
Nel 1441 papa Eugenio IV dava questa chiesa, che era piccola parrocchia, in commenda alle monache del vicino monastero del Corpus Domini; nel 1478 invece papa Sisto IV, dopo una vivace contesa tra il monastero della Nunciata e la parrocchia, che a volte assunse fasi davvero ridicole, concedeva chiesa e parrocchia alle monache del monastero della Nunciata, che avanzavano diritti contro quelle del Corpus Domini sul possesso del corpo della Santa: la lite insorta fra i due monasteri fu risolta in favore di quello della Nunciata, come si è visto: però esso doveva sborsare ogni anno 50 ducati a quello del Corpus Domini.
Nel 1579 passando per il Dominio veneto l’imperatrice Maria d’Austria, il Senato volle farle omaggio di una reliquia di S. Lucia. Con l’assistenza del patriarca Trevisan fu levata una piccola porzione di carne dal lato sinistro del corpo della Santa.
Altre reliquie della Santa si trovavano a Siracusa, recate nel 1556 da Eleonora Vega, che le ottenne a Roma dall’ambasciatore di Venezia’ così pure avvenne per alcuni frammenti di braccio sinistro, recati ivi nel 1656 da Venezia, dal cappuccino Innocenzo da Caltagirone. Reliquie ancora sono possedute a Napoli, Roma, Milano, Verona, Padova, Montegalda di Vicenza e a Venezia stessa, nelle chiese di S. Giorgio Maggiore, dei SS. Apostoli, dei Gesuiti, dei Carmini.
All’estero sono documentate a Lisbona nel 1587, con una reliquia ricevuta da Venezia; in chiese del Belgio nel 1676; a Nantes, in Francia, nel 1667. Nel 1728 una parte dell’urna fu donata a papa Benedetto XIII.
Una nuova chiesa, al posto di quella antica, fu costruita tra il 1609 e il 1611, su schemi palladiani, riecheggiante l’attuale delle Zitelle, con due torri campanarie in facciata.
Per completarla, giravano per la città alcuni incaricati dalle monache a raccogliere le offerte dei fedeli con la cassella concessa dal Magistrato della Sanità.
Il 28 luglio del 1806, in seguito alla soppressione napoleonica, chiesa e monastero furono chiusi e le monache si rifugiarono in S. Andrea della Zirada, portando con sé le reliquie della Santa. Poco dopo, non potendo rimanere lì per ragioni di spazio, con il consenso del Ministero del culto ritornavano ancora all’antica sede insieme con il corpo di S. Lucia.
Nel 1813 il convento di S. Lucia veniva donato dall’imperatore d’Austria alla b. Maddalena di Canossa, che vi abitò fino al 1846, quando si iniziarono i lavori per la stazione ferroviaria e per la demolizione del convento. Per il momento la chiesa non fu toccata. Invece nel 1860 dovendosi ampliare la stazione ferroviaria, nella stolida furia distruttiva dell’epoca, fu abbattuta anche la chiesa di 5. Lucia seguendo la triste sorte di tante altre chiese veneziane. Vero è che minacciava rovina, fatiscente ormai di secoli e di umane malizie. Si sarebbe potuto ripararla e risolvere diversamente le esigenze della stazione ferroviaria. Invece presi accordi con l’Autorità Ecclesiastica, si decise di trasportare il corpo della Santa nella vicina parroc-chiale di S. Geremia. Per la traslazione, avvenuta l’11 luglio 1860, intervenne il patriarca Ramazzotti con tutto il Clero e popolo della città: sette giorni rimase il sacro corpo sull’altar maggiore, poi fu posto su un altare laterale in attesa di costruire la nuova cappella. Tre anni dopo, l’11 luglio 1863, il patriarca Trevisanato la inaugurava: essa era stata costruita con il materiale del presbiterio della demolita chiesa di S. Lucia su gusti palladiani. Finalmente per la generosità di Mons. Sambo, parroco di quella Chiesa (che nel frattempo venne ad assumere la denominazione « dei Ss. Geremia e Lucia ») su disegno dell’arch. Gaetano Rossi veniva preparato alla Santa un più degno altare in broccatello di Verona con fregi di bronzo dorato. Il 15 giugno del 1930 il servo di Dio patriarca La Fontaine lo consacrava e collocava il corpo incorrotto della Santa nella nuova urna in marmo giallo ambrato, che lo sovrasta. Nel 1955 il patriarca Angelo Roncalli, poi papa Giovanni XXIII, volle che fosse data più condegna importanza alle sacre reliquie, suggerendo l’esecuzione di una maschera d’argento, curata dal parroco di allora don Aldo Da Villa.
Infine, nell’anno 1968, per iniziativa del parroco prof. don Aldo Fiorin e la generosità di benefattori, la Cappella e l’Urna sono state completamente restaurate.
E nel suo tempio ancor oggi riposa la Martire, meta venerata di tanti pellegrinaggi, con l’augurio inciso nella bianca curva absidale, che si specchia sulle acque del Canal Grande
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