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Il nome Sicilia deriva dalla radice SIK (fertilità) e dal suffisso -ILIA (terra), e pertanto Sicilia vuol dire terra fertile, non per caso
i romani la chiamarono “il granaio di Roma”.
Cos'è la Trinacria?
Il simbolo della trinacria (una testa con tre gambe) è un simbolo solare. La testa gorgònide che sta al centro ha un valore apotropaico,
cioè di talismano portafortuna, infatti secondo la tradizione mitologica, la testa della gorgòne aveva il potere di pietrificare i nemici,
mentre le tre gambe rappresentano i raggi del sole.
CONSERVATO NEL MUSEO ARGHEOLOGICO DI AGRIGENTO


I colori della bandiera.
Perchè rosso e giallo?


La bandiera giallo e rossa della Sicilia esiste da 720 anni. Venne fatta nel 1282 dalla Confederazione delle Città della Sicilia che, dopo la rivolta del VESPRO del 30 marzo 1282 a Palermo, con un patto solenne, il 3 aprile del 1282, decisero di cacciare i Francesi da tutta la Sicilia. I colori di questa bandiera sono il rosso ed il giallo con la Trinacria in mezzo. Il rosso è il colore del Comune di Palermo (ancora oggi), il giallo è il colore del Comune di Corleone, a quel tempo era la grande capitale agricola nel cuore della Sicilia. Furono le prime due città a fondare la Confederazione contro gli Angioini. La Trinacria esiste da circa 30 secoli in varie versioni. La testa della Trinacria era nel petto di tutte le statue della dea Atena presso i Greci. Identificata con MEDUSA da scultori e pittori, rappresentata in tutte le epoche.

Dal gennaio 2000 con la Legge N.1 del Parlamento Siciliano è la BANDIERA UFFICIALE della Sicilia. Questa Legge ne regola l'uso e l'esposizione su tutti gli edifici pubblici. Deve essere esposta sugli edifici comunali, sulle scuole, sugli edifici pubblici ed in tutti i luoghi in cui la Sicilia è rappresentata. La Polizia Municipale di tutta la Sicilia ha due stemmi uguali sulle divise. I Carabinieri delle caserme Siciliane hanno uno stemma con la Sicilia e la bandiera giallo rossa, la Guardia di Finanza e la Guardia Forestale anche. La Trinacria è usata da milioni di Siciliani in tutto il mondo come simbolo dei loro prodotti e delle associazioni. La troviamo nello stemma dell'università di Palermo, negli uffici postali prima dei Piemontesi ed è stata usata anche sulle medaglie delle Universiadi in Sicilia nel 1997. Le navi della Marina Mercantile Siciliana sino al 1861 issavano la bandiera giallo-rossa con la Trinacria su tutti i mari del mondo (anche sotto i Borboni).

Allo stadio viene usata in tutta la Sicilia, anche dove i colori della squadra non sono il giallo ed il rosso come invece sono a Messina da quel 1282. Tutte le Città della Confederazione inviarono i loro uomini a Messina per difendere la "porta della Sicilia" dall'esercito Angioino che, insieme a tutte le città Guelfe d'Italia inviate dal papa francese anche lui, voleva vendicarsi sterminando coloro che avevano osato fare una rivoluzione contro il re incoronato dal papa. 5 mesi di assedio a Messina non bastarono per piegare i Siciliani chiusi dentro le poderose e insuperate mura. 60.000 armati, 200 navi da guerra, 15.000 cavalieri NON RIUSCIRONO A TOGLIERE QUESTA BANDIERA DALLE ANTICHE MURA DELLA CITTA' STATO DI MESSINA, LIBERA REPUBBLICA. Nella precipitosa fuga, a settembre, restò sul campo lo stendardo della città di Firenze (guelfa), è ancora conservato nel Duomo di Messina.

”Noi non siamo né Joni né Dori, ma Siculi“.
L’affermazione di Ermocrate di fatto sanciva – nel 424 a. C. – la costituzione della nazione siciliana.

L’identità nazionale del popolo siciliano, favorita dall’esigenza della difesa, dalla radicata denominazione etnica e, bensì, dalla naturale insularità, trovò veicolo ideale nella lingua.
La lingua, considerata a ragione l’elemento di sintesi di una nazione; la lingua, che Wilhelm Humboldt ( filosofo e scrittore tedesco vissuto tra il 1767 e il 1835 ) definì una vera e propria concezione del mondo.

Una lingua, nel caso in specie, capace di resistere alle influenze delle disparate altre culture con le quali si è ” incontrata “; capace di acquisire da ognuna di esse quanto, di volta in volta, più utile al suo arricchimento e di stratificare, nei secoli, tali conquiste sulle proprie, originarie fondamenta.

E allora, ecco il greco-siculo, il latino-siculo, l’arabo-siculo, il franco-siculo, l’ispano-siculo, l’italo-siculo. Ma, sostanzialmente, sempre una lingua, una sola: il Siciliano.
Il Siciliano che, dopo il disfacimento del Latino, divenne la prima lingua letteraria italiana ( Dante, nel De Vulgari Eloquentia: tutto ciò che gli italiani poeticamente compongono si chiama siciliano; e il Devoto: la Sicilia a partire dal XII secolo, nel periodo delle due grandi monarchie, la normanna e la sveva, ha elaborato la prima lingua letteraria italiana ).
Un Siciliano colto, quale fu quello delle opere degli scrittori siciliani del XIII secolo alla Scuola poetica – la Magna Curia – fiorita, a Palermo, alla corte di Federico II.
Si diceva, dianzi, delle fondamenta. Il Latino, notoriamente; ma leggiamo altresì cosa scrive Giovanni Ragusa:

I Siculi erano un popolo indo-europeo. Dall’India essi vennero verso l’Europa e quelli che, in seguito, giunsero nella nostra Isola, guidati da Siculo, furono chiamati Siculi. La loro lingua pertanto doveva essere, se non la sanscrita, una che certamente ne derivava.
Alcuni vocaboli: il nostro pùtra ( puledro ) nel sanscrito è pùtra che vuol dire figlio; il nostro màtri, non deriva dal latino mater, ma dal sanscrito màtr; il nostro bària ( balia ) nel sanscrito è bhâryâ e vuol dire moglie.  E prosegue: I Siculi, sottomessi dai Greci, furono costretti per necessità a far proprio il lessico dei dominatori, ma lo espressero con la fonetica che era ad essi congenita, naturale. Ciò avviene anche a noi che, dovendo parlare l’italiano, lo esprimiamo ( foneticamente e sintatticamente ) come ci è naturale, e ciò fa sì che veniamo riconosciuti ” siciliani “ in ogni luogo e da tutti.

Sappiamo che la nostra lingua, figlia del sanscrito, ha come il sanscrito soltanto vocali a, i, u. Sappiamo che la lingua siciliana rifiuta in modo assoluto la e e la o atone. Sappiamo anche che si esprime con regole diverse da quelle delle lingue latina e italiana. Di essa non dobbiamo vergognarci, perché non ci rivela, come dicono i concittadini del Nord Italia, terroni, ma gente di antica e nobile civiltà.

L’unità d’Italia e l’affermazione del Toscano quale lingua dei sudditi del Regno, avrebbero voluto – dovuto – decretare la scomparsa dei dialetti, di tutti i dialetti della penisola; Siciliano compreso dunque, malgrado il suo plurisecolare passato di storia e i poeti – quali Antonio Veneziano, Giovanni Meli, Domenico Tempio per citarne solo alcuni – che l’avevano celebrato.

E invero, esso sembrò smarrirsi, parve quasi soccombere. Salvo ritrovarsi, a fine Ottocento, col Verismo prima e con autori del calibro di Nino Martoglio successivamente.
Col Novecento poi, quanto più la funzione della comunicazione andò ripiegando in favore dell’Italiano, tanto più se ne andò estendendo l’impiego letterario, in particolare nella poesia.
Cosicché se da un canto il dialetto siciliano è, ancora oggi, più vitale che mai, d’altro canto esso è relegato ( faticosamente resistendo a contaminazioni, a italianismi, a beghe di ogni sorta ) al ruolo pressoché esclusivo di lingua letteraria, lingua dei poeti; di lingua, ovverosia, volta al perpetuarsi di un patrimonio di cultura che altrimenti rischia, seriamente, di estinguersi.

Tale fenomeno ha generato, nel secolo appena trascorso, degli autori di assoluto pregio, tra i quali Ignazio Buttitta è di certo il più universalmente noto e anche Giovanni Formisano, l’autore di ” E vui durmiti ancora “, è assai conosciuto. Altri, parimenti degni e tuttavia meno fortunati, pazientemente aspettano che qualche spirito illuminato, un giorno o l’altro, li ” scopra “

Viene posto sovente, da taluni, l’interrogativo: ” non esistendo un Siciliano nel quale scrivere ha senso dannarsi sulla autentica trascrizione delle parole della poesia?”
Nell’intento di approfondire ulteriormente la questione, pongo a mia volta, a me stesso e a voi, una domanda: il SICILIANO è LINGUA o  DIALETTO ?

Affrontiamo complessivamente i due quesiti, tramite le autorevoli valutazioni storico – critico – letterarie di Mario Sansone e di Salvatore Camilleri:

1) dal punto di vista glottologico ed espressivo non c’è alcuna differenza essendo la lingua letteraria un dialetto assurto a dignità nazionale e ad un ufficio unitario per complesse ragioni storiche;
2) il Siciliano, con la poesia alla corte di Federico II, è stato determinante per la nascita della poesia italiana;
3) il Siciliano è stato lingua ufficiale per oltre due secoli (il XIII e il XIV );
4) il Siciliano è stato strumento letterario di poesia e di prosa: nella seconda metà del sec. XV diede vita alle Ottave o Canzuni, nel sec. XVIII a un autentico poeta come Giovanni Meli e nel XIX secolo a Nino Martoglio, ad Alessio Di  Giovanni, al Premio Nobel Luigi Pirandello. E ancora, la sua influenza si riscontra in Verga e Tomasi di Lampedusa;
5) il Siciliano, per ispirazione, toni e contenuti, è capace di esprimere tutta la complessa realtà, dall’aspetto lirico all’epico, dal tragico al comico, in tutte le sue essenze, potenzialità, sfumature.

E riportiamo ancora le parole di Guido Barbina: ” Tralasciamo, perché puramente accademico e fuorviante, il pretestuoso problema della differenziazione fra lingua e dialetto “ e taluni passi tratti dall’articolo ” Le lingue minoritarie parlate nel territorio dello Stato Italiano “ di Roberto Bolognesi: ” Tecnicamente i termini lingua e dialetto sono interscambiabili “ e aggiunge ” il loro uso non implica nessuna precisa distinzione genetica e/o gerarchica. Tutti i cosiddetti dialetti italiani sono lingue distinte e non dialetti dell’Italiano “.

” Il dialetto – asserisce a tal proposito Salvatore Riolo – non è una corruzione né una degenerazione della lingua e non potrebbe mai esserlo, perché i dialetti non sono dialetti dell’italiano, non derivano, cioè, da esso ma dal latino, e soltanto di questo potrebbero eventualmente essere considerati corruzione“.

E infine, secondo lo Studio del Centro Ethnologue di Dallas: ” Il Siciliano è differente dall’Italiano standard in modo abbastanza sufficiente per essere considerato una lingua separata “, ” è inoltre una lingua ancora molto utilizzata e si può parlare di parlanti bilingui“ in Siciliano e in Italiano standard.

Alla luce di queste considerazioni – ma ben altre se ne potrebbero portare a supporto tra le quali, di particolare rilievo: la presenza di Vocabolari, di testi di Ortografia, di Grammatica, di Critica, eccetera – ritengo si possano sciogliere ( entrambi  positivamente  ) i quesiti che ci siamo posti; ovvero:

A) ha senso perseguire la trascrizione corretta del Siciliano;
B) il Siciliano può essere considerato, a pieno titolo, Lingua.

Rebus sic stantibus, PERCHE’ IL SICILIANO ? E QUANDO ?

La questione, in realtà, è ben altra! La scelta del sistema di comunicazione non è, infatti, abito soggetto alla moda, al clima, al fine. La scelta nel nostro caso, ci avverte ancora il Camilleri, è dettata a priori: il “SENTIRE SICILIANO”

Il che significa “esprimersi con FORME, con SPIRITO, con IMMAGINI PROFONDAMENTE SICILIANI e non già con scialbe traduzioni dall’Italiano “; significa ancora ”liberarsi dal preconcetto che il dialetto debba solamente rivolgersi alle piccole cose, al folclore, al ricordo  “.

” il dialetto può esprimere tutte le complesse realtà: la storia, la filosofia, la sociologia, tutte le scienze, non in quanto tali, ma come patrimonio culturale che chi scrive consuma nell’atto della creazione “.

E allora, QUALE SICILIANO ? Quello di Catania o quello di Palermo? Quello di Siracusa o quello di Trapani?
E perché non tutti assieme, il prodotto di tutti essi ?
L’ Agrigentino, l’ Ennese, il Messinese, il  Nisseno, il Ragusano non sono pure essi Siciliano ?

E chiudiamo con un monito del Lurati: ” come la società tradizionale, anche il dialetto non può permettersi il lusso della nostalgia; la sua sopravvivenza è legata alla capacità di adeguarsi al mondo che evolve“.






QUELLO CHE SI IGNORA DELLA STORIA DEL SUD
Nel 1815, la popolazione del Regno era di 5.060.000, nel 1836 di 6.081.993; nel 1846 la popolazione arrivò a 8.423.316 e dieci anni dopo a 9.117.050. Questo vorticoso aumento della popolazione ha nome e cognome: benessere e progresso civile e sociale. Durante 127 anni di governo i Borboni diedero prosperità a tutto il popolo e da 3 milioni di anime, del 1734, si arrivò ai 9 milioni del 1856. Nel Meridione non si costruivano strade fin dal tempo dei Romani e i vicerè spagnoli impoverirono la popolazione esigendo tasse e balzelli, i baroni inselvatichirono la vita civile, le campagne erano abbandonate, i boschi avevano invaso le terre fertili di buona parte del Regno, i pirati razziavano le coste, il commercio non esisteva quasi più e, non essendoci polizia, nessuno rispettava le leggi e solo gli innominati di manzoniana memoria erano i veri padroni della società. I Borboni riuscirono dove gli altri fallirono, imbrigliarono e resero quasi innocui i baroni, costruirono strade, ricostituirono l’esercito e le amministrazioni locali cui diedero l’antica autonomia, diedero impulso all’industria, all’agricoltura, alla pesca, al turismo.
Da ultimo, tra gli Stati, divenne il primo d’Italia e tra i primi del mondo. Le ferrovie, inventate nel 1820, fecero la loro prima apparizione a Napoli (1839) con il tratto che congiungeva la capitale a Portici e poi fu concessa al Bayard di continuarla fino a Castellammare. A spese del tesoro nel 1842 cominciò quella per Capua e poi l’altra per Nola, Sarno e Sansevero. Nel 1837 arrivò il gas e nel 1852 il telegrafo elettrico.
Col benessere aumentava la popolazione in tutto il regno e per questa stessa ragione anche le entrate pubbliche che, di fatto, quintuplicarono.
Le strade erano sicure, non più masnadieri per terra ne pirati per mare; eliminate le leggi feudali fecero ordine sui territori e concessero, primi al mondo, la terra a chi la lavorava; furono così estirpate le boscaglie per far posto a frutteti e vigneti; furono prosciugate le paludi in tutto il regno e regalate ai contadini; furono arginati fiumi e torrenti. La scuola pubblica fu istituzionalizzata come primaria e quella religiosa a far da supporto. Laicismo e religiosità si confondevano, dando al regno nuovo impulso culturale. Fiorirono pittori, architetti, scultori, musicisti e grande sviluppo ebbe l’artigianato. Il teatro San Carlo, fu costruito in soli 270 giorni e la stessa corrente culturale fece nascere l’Officina dei Papiri, il Museo Archeologico, l’Orto Botanico, l’Osservatorio Astronomico, la Biblioteca Nazionale e, primo al mondo, l’Osservatorio Sismologico Vesuviano.
Lo sviluppo industriale fu travolgente e in venti anni raggiunse primati impensabili sia nei settori del tessile che in quello metalmeccanico con 1.600.000 addetti contro il 1.100.000 del resto d’Italia. Nacquero industrie tecnologicamente avanzate, dando vita a ferrovie e battelli a vapore e costruendo i primi ponti in ferro in Italia, opere d’alta ingegneria in parte ancora visibili sul fiume Calore e sul Garigliano. La navigazione si sviluppò in modo impressionante, tanto che il governo borbonico fu costretto a promulgare, primo in Italia, un Codice Marittimo creando dal niente una rete di fari per tutta la costa.
Le navi mercantili del Regno delle Due Sicilie solcavano i mari di tutto il mondo e la sua flotta era seconda solo a quella Imperiale Inglese e così pure la flotta da guerra, terza in Europa dietro quella inglese e quella francese. Le compagnie di navigazione pullulavano e così pure i cantieri navali, tutti forniti di manodopera di prim’ordine; i suoi maestri d’ascia e così i velai e i carpentieri erano richiesti in tutto il mondo.
Le industrie tessili, navali, metalmeccaniche pullulavano in tutto il regno: quella di Pietrarsa, con mille operai e settemila d’indotto, ne era la punta di diamante. Gli operai lavoravano otto ore al giorno e guadagnavano abbastanza per sostentare le loro famiglie e primi in Italia usufruirono di una pensione statale in quanto fu istituito un sistema pensionistico (con ritenuta del 2% sugli stipendi). Oltre al milione e seicentomila addetti nell’industria vi erano duecentomila commercianti e tre milioni e mezzo di contadini.
Il denaro circolava e le banche sovvenzionavano le imprese con mutui a basso interesse. Gli sportelli bancari erano diffusi in ogni paese e villaggio e prime al mondo, le banche del Regno, furono autorizzate dal Governo ad emettere i polizzini sulle fedi di credito ossia i primi assegni bancari della storia economica moderna.
Il turismo non era da meno delle altre industrie: la Sicilia, la Campania, il basso Lazio erano ricchissimi di reperti archeologici greci e romani che, affiancati da musei e biblioteche, diedero un impulso notevolissimo alla costruzione di alberghi e pensioni in quanto i viaggiatori aumentavano anno dopo anno.
Sorsero così le prime agenzie turistiche italiane e Carlo III di Borbone intuendo l’importanza di Pompei ed Ercolano, profondendo mezzi e denaro fondò l’Accademia di Ercolano, dando così, di fatto, inizio agli scavi.
Oggi Pompei è una delle città più visitate del mondo, con un milione di presenze all’ anno.
Oltre a bonificare le paludi, per dare lavoro ad operai e contadini, istituirono collegi militari come la Nunziatella, Accademie Culturali, scuole di Arti e Mestieri, Monti di Pegno e Frumentari
Le Università sfornavano fior di professionisti e scienziati e il Regno poteva vantare il più basso tasso di mortalità infantile in Italia. Erano sparsi sul territorio ospedali, ospizi e ben 9.000 medici.
Lo Stato godeva di buona salute, il deficit era quasi inesistente ed il suo patrimonio aureo era invidiato da tutte le nazioni.
Avendo buona amministrazione e finanze oculate la Borsa di Parigi, allora la più grande del mondo, quotava la Rendita dello Stato napoletano al 120 per cento, ossia la più alta di tutti i Paesi.
Nella conferenza internazionale di Parigi del 1856 fu assegnato al Regno delle Due Sicilie il premio di terzo paese del mondo, dopo l’Inghilterra e la Francia, per sviluppo industriale.
L’industria trainante, controllata con oculatezza dallo Stato e assistita dal sistema bancario non centralizzato, procurò dapprima i beni di consumo che servivano alla comunità per poi cominciare ad esportarli. L’industria di trasformazione dei prodotti agricoli fu fondamentale per lo sviluppo dell’ agricoltura come quella tessile per la pastorizia. Centinaia di frantoi macinavano le olive, centinaia di mulini trasformavano in farina il grano del Regno, migliaia di forni sparsi per le città ed i villaggi lavoravano il pane, decine di pastifici producevano pasta e conserve. Il 13 febbraio 1861 cadeva la fortezza di Gaeta: tre mesi di resistenza; tre mesi di massacri perpetrati dal generale Cialdini. 160 mila bombe rasero al suolo la città tirrenica e fiaccarono per sempre la sua vitalità.
Camillo Benso di Cavour diede al generale Cialdini l’ ordine di distruggere Gaeta in quanto stava ritardando i tempi per il suo disegno. Il Primo Ministro piemontese sapeva che il Piemonte era alla bancarotta, come sapeva che la sifilide lo stava divorando.
Il 13 febbraio 1861 è una data che ogni Meridionale dovrebbe memorizzare perché da allora iniziò una resistenza senza quartiere contro gli invasori savoiardi che al Sud nessuno voleva.
Nacque in quel giorno la questione meridionale.

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